In molti manuali di scrittura creativa si suggerisce un esercizio che appare e riappare in diverse varianti. Ricordo uno scritto del compianto Tabucchi che svolge questo esercizio in un memorabile racconto.
Si tratta di scegliere più o meno a caso una frase, ascoltata o pronunciata in un determinato contesto, che si fissa nella memoria. Insiste. Continua a lavorarci dentro e genera nuovi contesti. Si metamorfosa e prolifica. Fino a generare un nuovo racconto.
La frase “mia madre quella volta aveva ragione”, ascoltata in una vettura della Metro, pronunciata da una persona vicina che dialoga con una terza sconosciuta, ci si fissa nella memoria e ignorando i termini di una conversazione di cui non so e non voglio sapere. Non mi interessa ma entra nella mente e compie un percorso nuovo. Tutto suo e tutto nostro.
Una frase ascoltata, a caso…
Tempo fa, una conversazione via email con una amica e collega si concludeva con una frase che mi si è fissata in mente.
Potrei dire “colpito e affondato”, anche se questo non era nelle intenzione di chi l’ha proferita.
La frase suona:
“Ma c’è qualche via che tu non hai interrotto?”.
In un primo momento, pensando che chi l’aveva proferita era oltre ad amica anche docente di filosofia e filosofa lei stessa, ho pensato al titolo suggestivo di una opera di Heidegger: “Sentieri interrotti”.
Ma i miei ricordi di frequentazione giovanile di quell’opera erano troppo vaghi.
Ma più che altro non ero propenso a pensare ad una interpretazione tanto alta di quella frase.
Il mio inconscio era più propenso a vedere la questione da una prospettiva più raso-terra. Quella che gli è più congeniale, del resto.
È vero, e spesso ci penso anch’io, che nella mia vita ho intrapreso molte vie. Mentre molti si affezionano e si radicano nella frequentazione delle stesse vie, il mio percorso è consapevolmente più simile al vagabondaggio di un flaneur. Sono curioso e mi piace anche approfondire le cose ma non le sposo mai fino in fondo.
Resto un single rispetto al matrimonio con le idee
Come Leporello per Don Giovanni, eccomi quindi a compilare “Il catalogo delle belle che amò il padron mio”!
Sono nato nel 1950, nel mezzo di un secolo che a me appare il secolo delle grandi ideologie. Nel bene e nel male.
- Nella seconda metà del XX secolo ho potuto accogliere le grandi idee del Socialismo di variante marxista e poi anarchica.
- Ho creduto e professo ancora alcune idee ed invenzioni della Psicanalisi.
- Ho praticato lo Yoga e la meditazione Buddista Vipassana e Zen in anni in cui non era ancora la tendenza generale di molti psico-qualcosa.
- Nell’ultimo decennio del secolo ho incontrato l’Antroposofia di Rudolf Steiner e tutt’ora il mio operare è plasmato anche da quell’impulso.
Ma sento di non sposare nessuna delle ideologie che a queste idee si sono ispirate.
Spesso, nel XX secolo hanno fatto più danni di quanto sollievo possono aver arrecato.
Ho collezionato quindi un discreto numero di vie o sentieri interrotti. Non ne rinnego nessuna ma non indosso gli abiti di nessuna. In questo senso ho collezionato diversi sentieri interrotti.
Di ciascuno potrei dire qualcosa e magari lo dirò. Di altri ancora ho già detto (cfr pagine correlate a fondo pagina).
Oggi mi fa piacere parlare del mio approccio al Buddismo e raccontarvi qualche storia. Da tempo ho voglia di farlo.
La pausa di un respiro
Negli anni ’80 ho dedicato diversi anni a praticare ritiri intensivi di meditazione di Consapevolezza (Vipassana) sotto la guida principale del prof. Corrado Pensa.
Da molti anni non sento la necessità di praticarne ancora in modo intensivo ma non passa giorno che nel mio continuum mentale non appaia la figura del mio grande insegnante. Tra me e me lo chiamo il “Corradone”.
Pensare a lui e alle tecniche da lui apprese costituisce la tessitura di una pratica meditativa informale che non cessa di operare nella mia coscienza.
Pensare al Corradone significa per me tornare al respiro. Osservare qualche respiro estraniandomi per il tempo di tre respiri dal contesto in cui sto vivendo. O forse percepirlo in modo più attento e pervasivo.
Come sto respirando quando mi muovo di fretta e come cambia il respiro prendendo coscienza della fretta che magari è pure eccessiva? Una mia paginetta recita: “Se hai fretta, rallenta!”.
Qualche anno di ritiri intensivi in quegli anni, almeno due ritiri l’anno per almeno 10 giorni di silenzio e pratica meditativa formale, mi hanno lasciato il “credito formativo” di cui non smetto di beneficiare nella pratica meditativa informale.
Per questo termine intendo il fatto di non darmi necessariamente degli appuntamenti mattutini o serali di meditazione regolarmente scandita.
La meditazione “informale”
Pratica informale significa che in qualche modo la mia vita quotidiana nel suo svolgimento diventa il campo di un’unica pratica.
Non tutto il giorno con la stessa intensità ma non passa ora senza che la coscienza si posi delicatamente sul flusso del respiro che tesse la vita dal fondo. O dalla percezione della postura in cui il mio corpo scarica il peso alla madre terra.
Eccomi a condividere con voi un esempio emblematico in proposito. Potrei prenderne diversi altri. Ma, giusto per capire più precisamente di cosa si tratti, scelgo l’esercizio della presenza mentale nell’atto dell’igiene orale.
Verso la metà degli anni 80 ho avuto la buona sorte di frequentare un ritiro di meditazione di dieci giorni di silenzio con Larry Rosenberg. Un memorabile ritiro sulle colline toscane.
Larry è uno dei pionieri e fondatori di quello che nel frattempo è diventato il movimento Mindfulness. Un movimento di cui ho una ottima opinione ma non vedo motivi per appartenervi.
Mi basta avere incontrato l’indimenticabile personaggio di Larry Rosenberg. Che in quegli anni era un uomo di mezza età.
Le immagini che trovo sulla rete lo propongono coi capelli bianchi ma io lo ricordo bruno e po’ più ridente che sorridente.
Ricordo che in quel ritiro Larry indicava il suo proposito di creare un centro di meditazione nel pieno traffico di una grande Università americana. Diceva che proprio nel cuore del caos è utile creare centri di meditazione. Non solo nella pace campestre.
Le giornate scorrevano in sessioni continue di meditazione formale. Seduti o in una breve e lentissima camminata, tipica di questi tipi di meditazione.
Ma oltre a questa impalcatura formale abbastanza rigida, oltre al silenzio mantenuto per dieci giorni, venivano dati spunti di meditazione “informale”. Esercizi che si poteva esercitare nel normale svolgersi della vita quotidiana fuori da un contesto meditativo stretto.
Ma mi rimase impresso un esercizio la cui esecuzione ci affidò. Questa pratica non ho mai smesso di esercitarla.
Larry suggeriva di porre la massima attenzione al gesto di lavarsi i denti. Con la massima cura indagare tutte le sensazioni che proviamo mentre ci laviamo i denti.
Trovo la proposta assolutamente geniale. Un gesto piccolo ma di frequenza quotidiana. Se non abbiamo particolari fobie si tratta di un gesto di neutralità emotiva. Se qualcosa ci piace o ci dispiace troppo, meglio esercitarsi su un altro oggetto.
Le emozioni “neutre” sono un punto di leva eccellente per esercitare la consapevolezza.
Possiamo iniziare percependo il sapore del dentifricio e le nostre reazioni nei confronti di questo.
Ma già Larry indicava di cercare di percepire la sensazione delle setole dello spazzolino sui nostri denti. La salivazione. Tutte le sensazioni che invadono la nostra mente nell’esecuzione di questo gesto.
Dentifricio salino
Ma l’esecuzione di questo esercizio nella mia pratica si interseca naturalmente con un altro filone della mia ricerca interiore.
Dagli anni ’70 ad oggi e spero ancora a lungo… Qui la fedeltà mi è congeniale, uso lo stesso dentifricio. Un dentifricio trasversale rispetto ai gusti comuni.
Il dentifricio salino della Weleda. Un dentifricio che non fa schiuma e che non sa di menta!
Lo trovo di efficacia straordinaria e per questo non posso dimenticare l’occasione in cui lo conobbi.
Fu, verso la metà degli anni ’70, nella Farmacia Legnani a Milano. Oggi è una delle farmacie più celebri in materia di naturopatia. È diventata grande quanto un supermarket. Allora era una buona farmacia qualsiasi.
Ho un ricordo preciso del suo fondatore. Era il padre di Riccardo Legnani che probabilmente molti ricordano.
Un signore in età, molto compito e premuroso. Col camice bianco. Gentile in senso profondo.
Ero entrato per acquistare la novità del momento. Il dentifricio salino AZ 15.
Il dottor Legnani mi disse con grande delicatezza:
“Se lei vuole quel dentifricio io glielo dò volentieri ma mi permetto di consigliarle il dentifricio salino Weleda”.
In quegli anni avevo una idea molto approssimativa di cosa fosse questa casa farmaceutica che si ispirava alla medicina antroposofica e alle indicazioni di Rudolf Steiner.
Serviranno ancora una quindicina d’anni per incontrare, sempre grazie a un medico, l’opera di Steiner. Che dottore era ma in filosofia.
Ecco quindi come questi due ricordi si intersecano e confluiscono felicemente nel mio gesto quotidiano di lavarmi i denti.
Ma il dentifricio salino Weleda ha un’altra particolarità che non credo sia dichiarata sulla confezione.
Il dottor Pederiva, mitico primo imprenditore della Weleda in Italia, ho il piacere di conoscerlo e di incontrarlo ancora di tanto in tanto, mi suggerii di non bagnare lo spazzolino preventivamente.
Dopo diversi decenni, ancora oggi, di tanto in tanto mi sorprendo a far scorrere l’acqua sullo spazzolino prima di disporre il dentifricio. In questi casi, oltre a Larry Rosenberg e al dottor Legnani penso anche alla cara presenza del dott. Pederiva.
Che ne dite… quando mi lavo i denti sono sempre in buona compagnia e ho voglia di sorridere. Cosa che non mi succede così spesso.
Del resto i Caroselli della mia infanzia associavano il buon dentifricio al sorriso smagliante.
I conti tornano comunque. Pur usando un dentifricio strano!
Ma vorrei concludere questa paginetta, da cui ometto ovviamente mille altre cose accumulate in anni di esercizio, con una riflessione che mi accompagna da tanto tempo come un ombra. La indicheremo meglio tra poco.
Negli anni ripetendo quotidianamente l’esercizio ho percepito progressivamente una sensibilità sempre aumentata alle percezioni di quanto accadeva nella mia bocca.
Sempre più distintamente percepivo il lavoro delle setole dello spazzolino che si insinuavano tra i miei denti.
Ero molto soddisfatto. Pensavo che la mia consapevolezza si arricchisse continuamente di nuovi particolari, finché venni assalito da un dubbio.
L’ombra del dubbio
Ecco l’ombra di cui dicevo sopra. La preziosa ombra del Dubbio. In lei dimoro e nulla conosco di più sacro.
Forse le mie gengive si stavano ritirando, come accade nel corso della vita, verso la terza età.
Avevo cercato un dentifricio salino proprio per contrastare l’insorgenza di questo disturbo.
Forse non era la consapevolezza ad aumentare.
Era semplicemente che le gengive, ritirandosi, permettevano alle setole di penetrare tra i denti.
Rispetto a questo dubbio sacrosanto non ho rimedi e non credo nella possibilità di pervenire a grandi certezze.
Il dubbio è qualcosa di sacro già prima che venga eventualmente dissolto.
E con questo pervengo all’ultima apparizione sulla scena quotidiana del lavacro dei denti.
Ho avuto la fortuna di conoscere anche un altro insegnante delle stessa scuola cui appartengono Corrado e Larry: Insight Meditation Society.
Il grande Stephen Batchelor. Anni di monacato in due tradizioni buddiste e un’anima indomita di filosofo. L’esercizio del dubbio è la cifra dell’intelligenza critica.
Stephen Batchelors con la sua “Via del Dubbio”.
Un manuale meditativo fondato sull’esercizio sistematico del dubbio.
Ogni sensazione percepita può essere de-costruita e indagata dall’insistenza sistematica del Dubbio che non smette di imperversare sussurrando una domanda impertinente:
Ma che cosa è questo?
Che cosa è davvero ed ogni volta in modo nuovo?
Cosa accade davvero ogni volta che mi lavo i denti? E quale certezza ho della mia percezione?
Forse un integralista della meditazione potrebbe obbiettare che il pensiero del dottor Legnani, del dottor Pederiva di Rudolf Steiner o Stephen Batchelor siano distrazioni dall’esercizio della semplice percezione. Distrazioni dall’indagine percettiva cui staccare come minimo un cartellino giallo. Avrebbero ed hanno diverse ragioni.
Ma io non sono l’arbitro e non voglio avere assolutamente ragione. Faccio quello che posso e che riesco.
Mi accontento di concludere ogni sacro lavacro del cavo orale con un sorriso.
Non quello del Buddha.
Mi accontento del mio!
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