In quanto studente nei dintorni del Sessantotto, malgrado gli incontri con uomini straordinari che ho appena descritto facevo e facevamo molta fatica a tollerare una sensazione di nausea.
Qualcosa che ci invadeva l’anima nell’attraversamento di quegli edifici.
Giusto nel passaggio dal primo al secondo chiostro.
L’attraversamento del primo chiostro si poteva effettuare con baldanza. Si fa per dire, nel mio caso. Fedelmente accompagnato dalle mie fide stampelle, potevo però contare su forze fisiche il cui ricordo mi genera un brivido di piacere ma anche rimpianto e rammarico per un dispendio di forze oggi esaurite. Generosamente attinte e forse dilapidate.
C’era sempre qualche anima gentile che si accordava al passo della mia zoppia. Si procedeva lentamente. Io affabulavo, come ora, per ringraziare dell’attenzione. Loro si lasciavano rallentare con piacere.
Parlavo di baldanza comunque perché tra l’ingresso in largo Gemelli, di fronte alla caserma di polizia (in quegli anni, stato e chiesa erano più saldamente solidali), tra l’ingresso e il primo chiostro ciascuno avrebbe scommesso sulla propria determinazione a presenziare a una qualche lezione. Non era in discussione. Come l’amor di patria. E la mamma!
Ma la svolta verso il secondo chiostro era una svolta scivolosa. Dal punto di vista del desiderio, ovviamente.
Vi mostrerò presto in quale direzione inattesa, così frequentemente, venisse presa la curva del desiderio.
C’era infine un Giardino delle Vergini.
Denominazione origine di interminabili giochi verbali. Forse era il terzo chiostro, il più “occulto”! Credo di non averne mai avuto accesso. E non solo causa della mia appartenenza al sesso maschile.
Gironi infernali, sfere celesti? Semplicemente deserti purgatoriali.
Altri li avevano attraversati. Li attraversavano ancora, con maggior disinvoltura.
Non già quella ex-studentessa che pochi mesi prima, un sabato mattina, non trovò di meglio, per far la pipì (secondo alcune ricostruzioni), che ritornare ai servizi dell’amato Ateneo. In quel cunicolo rimase orribilmente prigioniera. Trucidata. Qualcuno lo ricorda come il Delitto della Cattolica.
Parecchie coltellate. Di cattivo gusto contarle ma qualcuno ha fatto anche questo. In ogni epoca il cattivo gusto non fa difetto.
Era proprio nell’attraversamento della soglia descritta tra i primi due chiostri che la nausea ci sopraffaceva. Ci bloccava per un istante.
Rapida, muta consultazione di sguardi, un gesto d’intesa… e VIA!
Si innestava la retromarcia. Nella mente prima e subito nel cuore e nei piedi.
Si tornava sui passi percorsi. Come una pellicola a ritroso. Non l’avremmo immaginato pochi minuti prima. Era più forte di noi. Anche da lì ho imparato a diffidare delle buone intenzioni…
Così si saliva sulla mia piccola auto.
Felicemente parcheggiata vicino all’ingresso. Tale privilegio, il parcheggio abusivo, era tollerato grazie alla mia invalidità. Un salvacondotto che condividevo gioiosamente con tutti noi.
Anche quest’auto così piccola era una risorsa condivisa.
Era la macchina più buffa del mondo. Una DAF 33. Ritratta qui in un fotogramma che potrebbe ricordare il contesto estetico del “Mon oncle” di Jacques Tati.
E invece somigliava straordinariamente alla mitica “Trabant” circolante oltre cortina. La 500 della DDR e dintorni.
Qualcuno me lo aveva detto. Non lo sapevo ancora.
La DAF era l’auto che quasi tutti gli invalidi (nessuno li chiamava ancora dis-abili o diversamente abili) conducevano in quegli anni.
Né alle nostre latitudini si conosceva l’esistenza di questa contro-immagine oltre-cortina. Anche di questa alterità, ho già detto.
La guerra fredda non era ancora finita e l’oltre-cortina era davvero vissuto come un sottosuolo. Come un inconscio. In un senso o nell’altro chi ne parlava non ne sapeva nulla.
Curiosa immagine, comunque, quella che ho trovato…
La Trabant l’abbiamo sempre vista e immaginata in tutt’altro contesto. Lavoratori della DDR, famiglie pigiate…
Ma le pubblicità talvolta rivelano segreti. Manifestano profezie. Emettono quei segni cui accenna Deleuze (Proust e i segni)
Ma “noi” chi? Si chiederà l’onesto lettore!
Noi della cosiddetta CBC. La “Compagnia del Bel Campà”.
Goethe più elegantemente sussurrava la sua esortazione: “Non dimenticarti di vivere”.
Ma probabilmente la denominazione risale ad una frase in dialetto sussurrata per caso da uno dei componenti storici del gruppo. Il professor Carotti. Ancora studente, meritava questo appellativo in quanto in quegli anni anche ai laureandi (e dintorni) era dato svolgere incarichi di supplenza (a volte prolungate) nelle scuole del libero Stato.
Così il professore una volta aveva sussurrato in milanese: “Bel campà, peccà murì”. Bello campare, bello vivere, peccato morire!
Alle orecchie del giovane con vive tendenze autodistruttive come il sottoscritto, non era sembrato male.
Eravamo forse meno di dieci ma sicuramente più di cinque. Toccavamo la dozzina col supporto di qualche consorte. Trotterellavano tra noi a volte anche i primi rampolli. Piccoli hippies di seconda generazione. Non erano figli di fiori e nemmeno Bambini di Dio. Erano i primi figli della nostra Beat Generation.
Ma in quelle spedizioni a marcia indietro raramente compariva qualche donna. Mai sicuramente bambini.
L’Università è una cosa da grandi. Per molti secoli anche segnatamente maschile.
Erano i primi anni della penetrazione femminista. A ben pensare, a quelle mattine, che si protraevano poi fino a metà pomeriggio, ricordo la partecipazione occasionale della sola Isabella. Voluminoso casco di riccioli. Tondi come le lenti degli occhialini. Trattava le femministe e i militanti con malcelata sufficienza. Naso camuso. Studiava sodo Horkheimer e Adorno. Era quasi alla tesi. Forse con Melchiorre, filosofia della storia.
Le signore comparivano la sera.
C’erano anche Barbarossa, Ramon, Gabriele, negli ultimi anni, era arrivato il giovane Pigi.
Luigi c’era già e ci sarà ancora in questo racconto. Progettava già il primo viaggio in India, fumava la pipa e non solo. Costituiva, insieme a me, l’ala francofona. Si ascoltavano anche Georges Brassens e Jacques Brel. Boris Vian e Leo Ferrer.
Per una alchimia dimorante in noi, convivevano nei nostri discorsi la Beat Beneration e il rock, americano ed anglosassone, ma anche la canzone d’autore europea. De André in Italia ma il riferimento più forte, da lui stesso indotto, era Georges Brassens. Che assomigliava pur a Guareschi. Mio padre lo adorava.
A ben pensarci il liceale in me aveva vissuto i mesi del 68 cantando e suonando Brassens mentre altri intonavano l’Internazionale. Trovavamo un terreno comune nei canti anarchici.
Ripensando a Brassens, riascoltandolo mentre stendevo questi appunti, ho compreso oggi che senza saperlo, vivevamo già nel suo segno che pur avevamo alle spalle. Vivevamo in una memorabile sua canzone.
Sicuramente Brassens aveva emesso il segno in cui la nostra esperienza si inscriveva, con tutte gli inediti di senso che finora ho cercato di mostrare.
Scrivendo questa pagina li ho scoperti io stesso per la prima volta. Il nostro futuro era già scritto in quel segno che già era alle nostre spalle e di cui ci inconsciamente ci alimentavamo.
Qualcuno in quegli anni parlava de Il Pane e le Rose. Il bisogno della poesia era impellente quanto quello del pane.
Per questo è possibile oggi questo lavoro di scrittura. Questa ri-tessitura biografica nel racconto.
La CBC, la compagnia del bel campà, di cui ancora dirò molto, era davvero qualcosa di inerente alla brasseniana Les copains d’abord.
Vi chiedo di ascoltarla con attenzione e di non perdere l’immagine di nessuno di quei volti.
Da una parte o dall’altra del palco. Chi dal fondo della platea si eleva per qualche istante e riscuote i primi 15 secondi dei 15 minuti di gloria profetizzati da Handy Warrol ad ogni individuo.
Trovate qui il testo in italiano.
Ma il CBC era anche un nucleo mobile. Una attività situazionista che si manifestava ogni volta che qualcuno non riusciva a superare il primo chiostro… Si veniva ributtati indietro!
Ma dove si andasse non mi è dato rivelare per questa settimana.
L’onesto lettore dovrà attendere ancora una settimana per saperlo…
Spero di non abusare della sua pazienza!