La battaglia dei 9 anni

Bambini - La battaglia dei 9 anni

Inizio con questa pagina una carrellata che andrà a comporre quello che mi piace indicare quasi scherzosamente come una sorta di Storia delle guerre di indipendenza”. Le combatte ogni persona che, nel corso della propria biografia, voglia affermare la propria individualità. La lotta per provare a “diventar sé stessi”!

Questa guerra dindipendenza per conquistar sé stessi comprende diverse “battaglie”. Le “crisi biografiche” della prima età che si affrontano in caratteristiche età critiche.
Per molti di noi sono già note, grazie alla ricca letteratura della pedagogia steineriana.
Chi avesse difficoltà a pensare crisi cruciali ad età ben determinate ha tutta la mia comprensione. A loro chiedo solo, se ci riescono, di sospendere il giudizio e di seguire il filo di questa mia narrazione, come il Sultano, il racconto di Sherazade!

Considereremo così la crisi dei 9 anni, in relazione a quella dei 18.
Ma anche quelle dei 12, 14 e 21 anni. Ciascuna con caratteristiche ed atmosfere convergenti ma profondamente diverse.
E ancora, in modo più “adulto” le battaglie dei 28, 30 e 33 anni.

Cominciamo ad anticipare che quelle dei 9 e 18 anni riguardano la maturazione del seme dell’individualità più profonda, caratteristica di ciascuno, quella maggiormente individualizzata, appunto.
La crisi dei 12 anni costituisce invece la fioritura, più simile in tutte le biografie, come la fioritura della stessa specie di piante in una determinata stagione, che raggiungerà la maturazione, la fruttificazione progressivamente in quella dei 14 e 21 anni.
Quelle dei 28, 30 e 33 anni vedranno come campo una anima già maggiormente individualizzata.

Ora ci concentreremo sulla misteriosa crisi dei 9 anni. Chi, come genitore, educatore, buon osservatore di biografie o persona che semplicemente voglia ricostruire la propria, le conosce e riconosce molto bene.

È comunemente nota come l’improvvisa discesa, attraversamento di una improvvisa zona dombra che provoca atteggiamenti ombrosi, appunto.
Inspiegabilmente lo sguardo del bambino non riconosce più le stesse tonalità affettive al mondo che lo circonda e che lo ha accompagnato fino a quel momento.
Determinate abitudini vengono messe in discussione. Figure ritenute “buone” fino a quel momento, entrano in una zona di sospetto.
Bambinaie, insegnanti non appaiono più idonei alle necessità di una individualità che comincia a prendere coscienza di sé stessa.
Addirittura si dubita della veridicità dei racconti storici.
Chi, pochi decenni fa, ha ipotizzato che lo sbarco lunare, seguito dalle televisioni mondiali nel ’69, sia avvenuto in realtà negli studi di Hollywood evidentemente ha qualche conto in sospeso con l’attraversamento di quella zona d’ombra infantile!
Resta sempre qualcosa di infantile in ciascun adulto e non sempre in modo tanto vistoso!
Un motivo che vedremo riproporsi in tutte le prossime “battaglie” ma ogni volta con una modalità, e un senso differente.

La figura più significativa e toccante della crisi dei 9 anni si manifesta in un enunciato estremamente singolare e ricorrente.
Forse i nostri genitori non sono proprio quelli veri e quelli giusti. Forse c’è stato uno scambio erroneo nella sala neonati o addirittura una tresca, una truffa perpetuata per un qualche misterioso motivo tutto da indagare.
Vai a vedere di chi siamo veramente figli!
E questa curiosa supposizione spalanca lo sguardo a un paesaggio che non smette di risuonare, al di là della caricatura infantile, in tutta la sua ampiezza e la sua drammaticità. Ha una crucialità tutta sua e caratteristica.

Ma di chi siamo veramente figli?

Siamo figli di mamma, figli di papà ma anche, non mancano gli indizi nella storia dell’immaginazione, di un figlio del padre celeste, che non è proprio un qualunque figlio di papà. Un figlio celeste. Un figlio delle stelle.
Naturalmente ciascuno di noi può trovare nella propria interiorità tracce di tutte queste figure. Ferite e conquiste gloriose di ciascuna di queste battaglie.
Se siamo “adulti” le abbiamo proprio combattute tutte! Non sempre vinte. O non sempre brillantemente o completamente. Possiamo indagarne le tracce.

Ciò mi sembra prezioso ritenere è che la domanda: “Di chi siamo veramente figli?” travalichi i confini della caricatura, della parodia della crisi infantile.
In che cosa siamo figli dei nostri genitori, determinati dalle ferree leggi della genetica, oggi rese anche molto meno misteriose dalle indagini della scienza cosiddetta positiva e in che cosa invece, determinate predisposizioni, abilità, modi di sentire sembrano venire da un altro orizzonte.
Ci deve essere un’altro, un secondo o terzo cielo contro cui si staglia la figura irripetibile della nostra individualità.
E possiamo anche scoprire che per qualcosa ci sentiamo davvero “figli di nessuno”.

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Talvolta questi sentimenti di orfananza, queste misere povertà diventano proprio i punti di leva delle nostre conquiste più preziose e più individuali.

Jung arriva a sostenere che lo psicologo del profondo cura con le proprie ferite.
Che immagine splendente!
Herman Hesse, nella conclusione del suo Siddhartha indica che c’è un punto in cui la ferita comincia a germogliare e fiorire.

Teniamo per noi stessi questa esortazione alla riflessione biografica. Chiediamoci di chi siamo veramente figli e in che misura di ciascun genitore riconosciuto. Secondo la carne o secondo lo spirito. Secondo il determinismo del legame di sangue o secondo quelle che Goethe indica come le “affinità elettive”.
Teniamo questo come “compito a casa” e torniamo alla nostra crisi biografica dei bambini intorno ai 9 anni.

Allora chiedersi di chi siamo figli, quindi da dove veniamo è qualcosa di ben più profondo dell’apparente modesto capriccio di un bambino.
È viceversa una sorta di “iniziazione” che l’individualità umana può ricevere per la prima volta nel corpo-bambino di una domanda di portata universale!
Non ha tutti i torti il bambino a pensare che non quelli sono i soli, i veri genitori.

Ma in questo, come in tutte le cose essenziali della biografia umana, delle grandi acquisizioni facciamo la prima scoperta in modo tragico.
Nessun neonato sorride alla nascita mentre il suo corpicino viene districato dalla placenta in mezzo a tutto quel sangue.
Mentre si sente, come recitano i filosofi esistenzialisti, “gettato nel mondo”.
Per altro verso è lo stesso Rudolf Steiner ha ricordarci che ci svegliamo al mattino perché, attraverso la percezione, urtiamo, sbattiamo contro il mondo!
Possiamo pertanto vedere anche il versante iniziatico e glorioso di questa crisi. Nasce il sospetto che esista un altro versante della genealogia.
Possiamo vederla come un battaglia che in qualche modo, a nostro modo, vinciamo, se l’individualità si sviluppa.
Ciascuno la vince a modo suo e nella misura del possibile.
Ma questa è la vera posta in gioco!

C’è un altro  indizio doloroso e cruciale in questa crisi-battaglia. La percezione progressiva ma inesorabile della possibilità della morte.
A questa età non è più sufficiente raccontare ad un bambino che il nonno è volato in cielo. In nessuna delle possibili varianti di  questa leggenda.
La morte diventa qualcosa di più prossimo, qualcosa con cui fare i conti in altro modo e di cui cominciare a decifrare il doloroso enigma.

Quando frequentai il primo seminario di formazione alla considerazione della biografia umana secondo l’Antroposofia venne rivolta la stessa domanda a ciascun partecipante.
C’è un episodio memorabile, nel giardino dei nostri ricordi, che riguardi la morte o la malattia di qualcuno quando, bambini intorno ai 9 anni, abbiamo attraversato questa zona d’ombra. Abbiamo combattuto questa battaglia?
Incredibilmente nessuno si trovò sprovvisto di esempi e vividi ricordi.
Curioso! Certo, il dubbio neo-positivista che non ho mai abbandonato, parallelo al mio “cammino di conoscenza”, al mio itinerario sapienziale, ha mormorato in modo ben percepibile. Ma, diamine, in ogni istante nel mondo muore qualcuno e non perdiamo tutti i nonni a 9 anni ma indubbiamente in ciascuna anima sembra che un episodio di morte resti fissato a quella età perché a quella età quella domanda è cruciale. Domina l’orizzonte delle sguardo in quella svolta biografica.

Può trattarsi della morte non necessariamente di un parente, ma la riflessione psicologia anche estranea alla ricerca antroposofica indica che a quella età il bambino prende coscienza per la prima volta della possibilità della morte.
Ma la cosa non va intesa necessariamente in modo tanto lugubre e realistico. Da sempre sappiamo che il più grande propulsore della ricerca sapienziale, filosofica, meditativa, prende le mosse dalla considerazione della morte.
Sviluppare saggezza serve soprattutto a prepararsi ad una buona morte. Ad una morte il più possibile serena. A lasciare andare un po’ di quell’attaccamento alla gioventù o all’attaccamento al gioco della vita che col procedere degli anni risulta sempre più la strategia terapeutica più sensata. Più naturale, ecologica.

Il pensiero della morte quindi che per la prima volta attraversa l’anima intorno ai 9 anni è anche un costruttore del senso della nostra vita.
Montaigne ci ricorda che il senso completo della biografia si manifesta a partire da momento della morte. Fermare la biografia di un personaggio come Napoleone in un momento piuttosto che in un altro non è nulla di trascurabile. Che senso riceve una biografia da un esilio a s. Elena piuttosto che da un finale glorioso o da un ritiro in campagna o, ahimè, in una casa di riposo.

Molti hanno indicato che meditare significhi prepararsi alla morte. Allenarsi a quel distacco che diventerà reale solo nel momento estremo.
Meditiamo in angoli di meditazioni che sono solo palestre. La vera competizione sarà in quella certa arena olimpica. Quella sarà la prova definitiva che conferirà il significato definitivo alla nostra biografia.

Ecco tutta la portata dell’esigenza di sciogliere per la prima volta questo nodo essenziale alla possibilità di vivere coscientemente. Vivere secondo sapienza e saggezza. O, più semplicemente: vivere con cura.
È questo l’obbiettivo di ogni sforzo di riflessione biografica finalizzata all’auto-educazione a cui madre-Antroposofia ci chiama.
All’ombra di questa esigenza spero di re-incontrare i lettori per il prossimo appuntamento dedicato alla crisi dei 12 anni.

Le foto riprodotte, scattate presso l’orfanotrofio di Poltava (Ucraina) sono ancora una volta opera di Roberto Tani (“Moscow”). Amico e collaboratore che non mi stanco di ringraziare. Sta diventando l’occhio fotografico della mia cieca scrittura! 

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