Testimonianza della prima discesa in sala-motori e primo incontro col Bardo.
Sono stato un bambino senza modelli. Definizione dall’immagine inizialmente poco chiara, poco accettabile. Tutto poco presentabile.
Devono averlo pensato genitori ed educatori.
Da qualche parte ho avuto come ideale solo la realizzazione di me stesso. Per questo ho seguito sempre e solo il canto.
Il canto di Orfeo. La voce del Bardo.
Canta e, mentre canta, già c’è la danza che coinvolge lui, me e tutto il Clan. Tutti i membri delle nostre molteplicità.
La sua danza è il mio canto. Il nostro respiro.
Il suo canto la mia danza. Fino a non distinguere voce da piedi, da braccio e da soffio.
È il canto della creazione che appare attraverso le voci più diverse lungo tutto il corso della biografia.
Quando mi misero a suonare il pianoforte, nelle prime classi elementari, mi innamorai del nome di una bambina che non conoscevo ancora e che avrei dovuto incontrare al saggio finale. Il suo nome divenne per me una sorta di modello invisibile. Un mantram.
Che disastro!
Avrei dimenticato tutto nella vergogna, se la lettura di qualche pagina di Proust non mi avesse ricordato che il bambino malato fantastica sui nomi di paesi che non ha ancora visitato.
Ma c’è anche un bambino meno proustiano in me che, appena ha potuto, ha eletto Adriano Celentano come suo modello assoluto, totale ed indiscusso.
Un vero maître-à-penser ben prima che il Super-molleggiato, il fiero urlatore, approdasse alla penosa parodia di tale ruolo. I bambini sono davvero intuitivi. Avevo visto bene in lui.
C’era la stoffa di ciò che è diventato. Ma per noi allora era semplicemente il primo rocker italiano. Come non vergognarsi del personaggio che è diventato? Maitre-a-penser, giusto. Ma per bambini!
Anche qui, un autentico disastro.
C’è davvero bisogno che mi giustifichi?
Nella mia vocazione dionisiaca, il cantore di gruppo ha sempre rappresentato uno degli impulsi più forti.
Dovrei fare un passo indietro per ripescarne l’esordio.
Al di qua dell’età scolare viaggiavamo in ciò che allora definivamo con entusiasmo un bel torpedone. Quello dell’immagine di testa.
Di ritorno forse da una gita in montagna, un ragazzino, un po’ più grande, spigliato e disinvolto (aggettivi oggi sospetti), intrattenne i viaggiatori cantando con un microfono gracchiante. Gracchiava quanto ogni cosa poteva gracchiare in quel fondo di anni Cinquanta.
La canzone non la dimenticherò mai:
Conosco un cow boy laggiù nel Far West
Che corre a cavallo da Ovest ad Est
Quel vecchio signor terror dei Sioux
È alto sei spanne non più.
Sono incerto sul numero delle spanne e so che, se fossi un vero maniaco, correrei in qualche negozio del centro o mi collegherei alla rete per togliermi il dubbio e riascoltare l’originale.
Ma non sono così maniaco.
Ho imparato a compensare le perdite.
Si può vivere anche lasciando qualcosa di indefinito.
Non riascolterò mai più quella canzone. Non saprò mai più quante spanne era alto quel signor, il terror dei Sioux.
Quello che è importante è che allora capii qualcosa che oggi riconosco avere a che fare con Orfeo e Dioniso.
Perdersi nell’entusiasmo, nella coralità del canto per poi ritrovarsi ad un altro livello. Ritrovarsi nel canto della Creazione, dopo aver perso l’essenziale.
Fin qui recita un mio quaderno di una quindicina d’anni fa.
Come privarsi oggi, con Wi-Fi per tutti e You-Tube a manetta come la Biblioteca di Babele…
Come privarsi del piacere di ritrovare quella canzonetta… Tre dita di una mano, tasto di invio e, in meno di 30 secondi è trovata.
Siamo diventati tutti più maniacali.
NB L’immagine di Orfeo inserita nel testo è opera di Alex Glozblau e risulta da una scansione della copertina de “L’Orfeo” di Monteverdi, opera che amo e ascolto, pubblicata nel cofanetto del N° 19 de “La grande opera lirica” , realizzazione Prisa Innova S.L.