Se a Natale avessimo guardato bene, l’avremmo scoperto già allora.
Gli alberi erano spogli. Ma, raccolte nei rami, portavano già molte gemme.
Un germoglio è qualcosa che già esiste. Difficile pensare che possa vedere.
Cieco il germoglio, come un feto nel ventre.
Scoperta della primavera: da sopra quei rami, fin dentro le nostre finestre, qualcosa ci guarda.
Lo sguardo delle foglie. Fiori come pupille.
Gli altri uomini ci guardano sempre.
Siamo tutto l’anno sotto lo sguardo degli altri.
Le foglie del parco invece cominciano a guardarmi solo adesso. E fino ad autunno io sento di essere accompagnato dal loro sguardo. Sono i testimoni delle nostre azioni. Assorbono le immagini che sappiamo offrire di noi.
Forse la prima volta che questo pensiero mi si presentò, come spesso avviene, fu in una forma dolorosa. Sembra che, in quanto figli dei greci, noi si conosca in modo prevalentemente tragico.
Sebbene appartenga alla generazione che per prima ha letto il diario di Anna Frank, non ho mai fatto nulla per avvicinarmi più di tanto alla ferita della Shoah.
Ma mi trovavo, nel ’98, per tutt’altri motivi, a viaggiare nel cuore dell’Europa tra Dresda e Praga. Attraversavo una campagna di grande bellezza nel cuore dell’estate ed ero lieto di attraversare finalmente quei luoghi senza cortine di ferro. Senza cavalli di Frisia.
Un cartello stradale mi riportò alla memoria qualcosa di inquietante… Terezin era stato luogo di campo di concentramento. Deviai dal percorso con incredulità. Ai tempi in cui si leggeva Anna Frank mi immaginavo quei luoghi estremamente grigi e appartati. Cementificati nell’orrore. Terezin era a due passi dalla grande Praga, in direzione Dresda e Berlino, era campagna dolce come il bosco boemo…
Ma, paradossalmente, ciò che più mi colpì, in una visita molto superficiale (diciamo riservata, penso che il dolore meriti anche riserbo) fu quell’albero così mastodontico. Volli anche fotografarlo, lì di fronte alla porta d’ingresso della “cittadella”. Pensai che quella pianta era abbastanza anziana da aver visto molto.
Mi concentrai su quella pianta: che cosa poteva restare in lei di testimone dei fatti?
Avranno visto tutto le foglie nella loro stagione. Forse il legno ha il respiro più lento, ma di certo non vede. Dorme tra l’umore delle radici e lo slancio dei rami. Il respiro del legno è più lento, un respiro di secoli.
Ma il tronco è cieco. Chi può vedere son solo le foglie che, nella loro stagione, tornano alla terra e raccontano quello che han visto al dio dell’inverno.
Così la terra sa tutto grazie al ciclo delle foglie.
Sono le foglie che creano e nutrono la terra. Che trovano le “parole” giuste per farsi ascoltare dalla terra.
Noi sappiamo parlare solo con altri uomini. Quelli che nascono e muoiono come noi. Come le foglie.
Ma le foglie parlano con la terra. Il linguaggio umano parla al cielo. Tommaso d’Aquino l’aveva capito bene.
Le tradizioni spirituali dicono che dopo la nostra morte raccontiamo in cielo quanto abbiamo vissuto nella nostra vita. Anche il nostro corpo dovrebbe sciogliersi come una foglia e parlare alla terra. Dopo una vita che mediamente dura una settantina d’anni.
Le foglie che nascono in questi giorni lo fanno ogni sei mesi e forse raccontano altre cose alla terra.
Io passeggio nei viali del parco e penso che è bello essere guardato dalle foglie nuove.
Forse qualche anno prima dell’incontro con l’albero di Terezin, ho avuto sentore di tutto questo scrivendo qualche verso autunnale mentre pioveva a dirotto tra il parco e le mie finestre e, grazie a questa pioggia, le foglie restavano verdi e tardavano a cadere.
Posterò quei versi insieme a questa paginetta che vi è connessa.
Miracoli della telematica….. si può postare anche con la data del ’93 o del ’98, come se l’avessi pubblicata allora.
Grandezza dell’albero in ascolto!
O hoher Baum im Ohr!
E’ il primo sonetto ad Orfeo di Rilke, nella bellissima traduzione di Franco Rella. Questo non ve lo posto perché Feltrinelli ha il copyright!
Possa in ciascuno respirare la primavera!