Negli anni sessanta e settanta mi capitava di partecipare alla sensazione che la psicanalisi avesse a che fare con qualcosa di “scandaloso”.
Era facile, ancora in quegli anni, trovare nel riferimento alla sessualità qualcosa di scandaloso. Echi dello sconcerto che il dott. Freud deve avere generato nella Vienna cattolica e “cacanese”
Di acqua sotto i ponti ne è passata talmente tanta che vien da sorridere a pensarci.
Oggi abbiamo forse più pudore a parlare dei nostri sentimenti che non della nostra vita sessuale e tutto sommato non è un cattivo segnale.
Probabilmente al suo nascere la psicanalisi ha scandalizzato anche per il riferimento alla vita sognante e alla paradossale disciplina della libera-associazione.
Sono rimasto profondamente colpito negli anni passati, dialogando con anziani e scoprendo di quale infinitamente maggiorre capacità di concentrazione fossero capaci.
Noi al confronto siamo molto più immersi nei nostri desideri, nelle nostre fantasticherie…. Siamo molto più frammentati. E’ passata molta psicanalisi ed un po’ di psichedelia nella cultura di massa al punto che la libera associazione è diventata quasi la regola prevalente nelle nostre conversazioni. Anche facendo cultura. Diciamo quel che ci viene in mente e spesso abbiamo una notevole difficoltà ad ascoltare ciò che l’altro sta dicendo. Facciamo davvero fatica a seguire un filo logico.
Forse solo i filosofi, che non a caso ci appaioni spesso cervellotici, sono in buona parte ancora legati ad una esigenza di concatenazione logica dei pensieri che, lo ripeto, nelle generazioni precedenti, era più facilmente la norma.
Il riferimento alla sessualità e alla libera associazione non scandalizza più una cultura del nostro tempo che usa il riferimento alla sessualità come veicolo di penetrazione pubblicitaria. Analogamente, dire ciò che ci salta in mente ci appare un sacrosanto diritto acquisito.
Certo si potrebbe obiettare che la sessualità non è proprio solo quello. Nemmeno la libera associazione è solo un parlare svagato… ma entreremmo in un sentiero spinoso e forse il discorso diventerebbe molto tecnico.
Scelgo invece un’altra via che mi appare più percorribile.
Conveniamo provvisoriamente sul fatto che la psicanalisi non scandalizzi più nessuno…. oppure no….
C’è e c’era una portata ben diversa dello scandalo suscitato dalla nascita della psicanalisi. Io lo percepivo già dal fondo degli anni 70. Non accenna a declinare ma è tutt’altra cosa rispetto a ciò di cui sopra.
La psicanalisi è scandalosa per due grandi motivi completamente diversi: primo perchè cura con la parola, secondo perchè fa dell’intersoggettività un uso talmente spericolato da rischiare di farne crollare la attendibilità scientifica. La quale, da Galileo in poi, ci chiede di argomentare la propria efficacia con sperimentazioni ripetibili in qualsivoglia contesto.
Che un medico neurologo, quale Freud è stato, abbandoni contemporaneamente il “solido terreno” di una medicina sostanzialistica e farmacologica e contemporaneamente il pur incerto riferimento all’ipnosi che aveva riportato come un trofeo dal suo viaggio a Parigi…. questo è davvero scandaloso!
Per un verso aveva capito subito (è questo è molto più importante) che la gente sà ipnotizzarsi benissimo da sola. Basta farla mettere comoda su un divano e proporgli di comunicarci ciò che le salta in mente.
Per questo siamo un po’ tutti “ipnotizzati”! Perchè stiamo comodi e possiamo dire ciò che ci salta in mente! Guardate come faccio anch’io su FB!
Ma curare con la parola, senza medicine e senza imposizione ipnotica delle mani. questo è qualcosa di veramente rischioso per il medico. Qualcuno può sempre dirti che sei un ciarlatano! E come difendersi da questa accusa?!! Uno che cura con la parola…..
Mi perdonerete se pongo queste domande in modo così scherzoso ma, credetemi, sono davvero tanti anni che ci penso!
James Hillmann, che è un bel po’ più bravo di me, si è posto lo stesso problema e lo ha risolto in modo molto elegante. Si è chiesto perchè, oltre tutto, psicanalisti diversi che curano pur tutti con la parola riescono a farlo partendo da presupposti teorici vistosamente differenti. Evidentemente la nostra efficacia non risiede in ciò che noi pensiamo essenziale. Non nelle nostre teorie.
Sono le storie che sappiamo raccontare o sappiamo farci raccontare che curano. Le “Storie che curano” appunto.
Sherazade dovrebbe essere la nostra santa protettrice! Diamole un posto d’onore nella nostra categoria. Si è salvata la vita raccontando storie per 1001 notte. Il tempo di una psicanalisi. Ma anche il tempo per generare tre figli al Visir. Salvare sé stessa e tre figli da un sovrano assoluto e divoratore.
Altro che sprecar tempo ad esecrare primi ministri!
Lo scandalo è quindi curare con la parola. Raccontar e ascoltare storie … in quel teatro dell’intersoggettività che si crea nello studio psicanalitico. Perchè, oltre a curare con le parole (anche nel versante del silenzio, che della parola è solo una sospensione che dovrebbe permettere l’ascolto) oltre a curare con le parole o col silenzio, dobbiamo pensare che nè il narratore nè l’asoltatore sono intercambiabili. La scientificità richiederebbe questo. Ognuno dovrebbe poter ripetere e verificare l’esperienza. Questo evidentemente non è possibile e… mi concederete che questo è davvero scandaloso!
Me ne sovviene una memorabile tra le 101 storie Zen
Molto tempo fa, in Cina, c’erano due amici, l’uno molto bravo a suonare l’arpa e l’altro molto bravo ad ascoltare.
Quando il primo suonava o cantava di una montagna, il secondo diceva: “vedo la montagna come se l’avessimo davanti”.
Quando il primo suonava di un ruscello, colui che ascoltava prorompeva: “Odo l’acqua che scorre!”
Ma quello che ascoltava si ammalò e morì. Il primo amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più. Da allora, tagliare le corde dell’arpa è sempre stato un segno di grande amicizia.
Da “101 storie Zen” , storia N° 84, pag 93, Apdelphi Ed
La verità che esplode da questa narrazione è l’espressione pragmatica più realistica di ciò che nella psicanalisi non smette di scandalizzare.
In altre parole, non sapppiamo come e perchè (se qualcuno lo sa me lo dica e mi faccia smettere di penare) ma nella parola, articolata in racconto, in traversata autobiografica, c’è qualcosa che può curare. Non sempre ma può farlo.
Esiste sicuramente una buona possibilità di restare ad almanaccare a vuoto su sé stessi o su ciò che gli altri ci appaiono, ma un’altra possibilità c’è!
Una possibilità che (per dirla con Simone Weil) sul Peso prevalga la Grazia.
Che la parola, sommamente la parola poetica, scioga un nodo.
Possibilità di cui la psicanalisi non è ovviamente unica portatrice, ben inteso!
Che il racconto instauri la rappresentazione teatrale della condizione di caiscuno. Quello spettacolo, quell’autore che ogni personaggio nella sua traversata non smette di cercare. Spesso nell’analista.
Dovendo collocare il rigore del lavoro psicanalitico, fin dagli anni 80 quando cominciai a pormi queste domande, non ho trovato di meglio che pensare all rigore della scena teatrale più che il rigore scientifico.
Anche il teatro necessita di una disciplina e di un rigore, ma è ben altra cosa rispetto al discorso scientifico. Siamo comunque di fronte ad una nuova potenza della teatralità. La sua diluizione più alta. Certo il teatro più intimo che mai sia stato concepito. Freud non usava mezzi termini: è impossibile mostrare ad un terzo l’efficacia della psicanalisi. Perchè se si incarna un terzo, la scena psicanalitica non è più tale.
Il terzo, nel teatro, è lo spettatore al buio.
Non di meno l’uomo che torna nel mondo dopo la traversata è un uomo riconoscibile a terzi ma solo a posteriori.
Ed è un uomo che è stato anch’esso paradossalmente spettatore oltre che attore di quanto lo riguarda.
E anche questo, converrete con me, è davvero scandaloso.
Con queste domande nel cuore ho attraversato la mia biografia per una trentina d’anni: dai dintorni dei trenta a quelli degli imminenti sessant’anni.
Non è tanto e non è poco.
Ho trovato molte spiegazioni avvincenti: soprattutto alle radici della antropologia indo-ariana. Nella teoria dei “corpi sottili” delle Upanishad e dello Yoga. In fondo però si tratta pur sempre di quelli che il “secondo” Wittgenstein riconoscerebbe come “giochi linguistici”.
Così mi son deciso a quello che mi appare un grande passo. Anziché scandalizzarmi di una disciplina fondata su giochi linguistici. In fondo lo è anche la letteratura, il teatro e la cultura tutta… anziché abbassare la scienza a fiaba, eleviamo la fiaba e la poesia che non sono il primo a riconoscere come i più grandi “educatori” del genere umano.
E giunti a questo punto però, l’aria si fa rarefatta e restano poche voci a dire un paio di cosette.
Che l’uomo è l’albero con le radici in cielo. Oppure che l’albero cosmico ha fronde che giungono fino a noi e questi rami sono fatti della sostanza del verso, della strofa vedica, di materia poetica. Di parole. Verità che ci giunge dall’antica India dei Veda.
E il punto più vicino a noi è quello da cui ci parla il sublime apostolo Giovanni, quello che ci sussurra che la Parola era il pricipio e via… discorrendo.
Quella Parola (Logos) di cui il dottor Faust, nella notte pasquale, si chiede se vada tradotta come Parola o come Azione.
Quella stessa facoltà che spero di non usare in modo troppo indegno in questo momento in cui, a notte fonda, decido, appagato, di tacere.
Questa riflessione, nata come nota in FB è dedicata ai miei amici lettori di Silvia Montefoschi che mi hanno ispirato a riprenderla dopo anni.
Da parte di uno che, davvero, di leggere qualcosa che non sia tra le righe delle parole degli amici o dei pazienti, francamente, non ha più tanta voglia!
Penso spesso che se non ci fossero i malefici occhiali da molti anni non potrei leggere quasi più niente.
Così per quasi tutti i miei coetanei.
Resisto invece miracolosamente (scandalosamente!) a veder piuttosto bene da lontano. Ho ancora la patente seza occhiali!
Buon solstizio d’estate a tutti!