Vorrei che la prima paginetta del nuovo anno fosse qualcosa come un sorriso. Per i lettori più volonterosi dal sorriso potrebbe germogliare, fino ad esplodere, una risata.
Per parte mia vi offro una affettuosa risata.
Ma è una risata un po’ sospetta. È stata scatenata dal ricordo di una vecchia barzelletta.
Noi lavoriamo per un mondo in cui per ridere non servano più le barzellette.
Ma in epoche in cui c’è poco da ridere, ci si aiuta come si può. Come vedete lo faccio anch’io!
Intuisco però la via attraverso la quale il sorriso del Buddha possa diventare la risata dionisiaca cui fa riferimento Nietzsche.
Riuscirò un giorno a far germogliare un sorriso fino a una risata!
Viviamo ancora un tempo in cui le risate possono ancora essere scatenate dalle barzellette. Questa era antropologica.
Curiosa istituzione quella della barzelletta, un genere oggi felicemente in disuso. Comici d’altri tempi hanno fondato parte consistente della loro fortuna sulla barzelletta. Penso a Walter Chiari, a Erminio Macario, Gino Bramieri. Non a caso forse escono involontariamente nomi di defunti.
La barzelletta è stata soppiantata dal cabaret.
Da Parigi, alla Berlino di Marlene Dietrich, al Derby di viale Monte Rosa a Milano. Forse una menzione anche al Brecht strehleriano del Piccolo.
Vale la pena di riflettere su questa genealogia.
Dalla Repubblica di Weimar fino alla Milano dei miracoli, l’avanspettacolo spazzato dal boom economico del dopo-guerra… Per la precisione dopo-due-guerre e pure mondiali. Nel mezzo, una manciata di totalitarismi in Europa.
Il Cabaret che, da divertimento di nicchia ha… come si dice oggi, “bucato lo schermo” fino alla TV di Zelig, appunto.
Il punto di approdo di questo percorso del comico è un prodotto che infatti infarcisce di non-senso la vecchia barzelletta.
Parallelamente al fatto che tanto non-senso abbia invaso in questi decenni la nostra esperienza quotidiana.
Mi è stato utile consultare la voce non-senso appena linkata in Wikipedia.
Il non-senso è così presente in ciò che facciamo che nemmeno lo riconosciamo.
Ma lo riconosciamo nello specchio del cabaret. O nello specchio del bagno.
Tornando alla barzelletta il cui ricordo mi ha scatenato la risata, prima devo raccontarla e poi spiegare per quale motivo mi sia tornata in mente stamane.
Dopo gli “autunni caldi” del post-68 il sindacalismo conosce il suo punto di massimo splendore. Giorno per giorno, battaglia per battaglia, venivano acquisiti i diritti che tuttora conosciamo come lo statuto dei lavoratori.
In questa generale esaltazione sindacale, pare che una mattina, in una fabbrica occupata, nel plenum di un’assemblea di lavoratori, un alto funzionario sindacale abbia dato pubblico annuncio del fatto che…
Dalla prossima settimana, cari lavoratori, compagni e compagne, la settimana lavorativa, già ridotta a pochissimi giorni, una manciata di ore, sarà ridotta ad UN SOLO GIORNO!
DALLA PROSSIMA SETTIMANA SI LAVORERÀ SOLO IL GIOVEDÌ’!
Dal fondo della sala allora si alzò una sorta di Cipputi e lanciò forte la sua lancinante domanda:
ANCHE IL POMERIGGIO?!
Sospetta e discutibile la barzelletta, sospetto e discutibile il ridere con una barzelletta…
Ma non cerco di giustificarmi in alcun modo. Non mi vergogno della mia piccolezza. Ne offro l’immagine con un sorriso appunto!
Perché lunedì mattina, il primo lunedì mattina lavorativo dell’anno, chiuso nel microcosmo della mia stanza da bagno, preoccupato dall’evenienza di uscirne, ho mentalmente evocato questa barzelletta.
Perché non me la sentivo proprio di iniziare la giornata, tantomeno la settimana. Fortunatamente i miei lunedì sono spesso abbastanza liberi.
Negli anni passati avevo l’abitudine di lavorare il sabato mattina e riposare il lunedì, almeno fino al tramonto. Ottima abitudine!
Ora lavoro molto meno e tengo il sabato solo per i lavori come formatore.
Sabato scorso avevo lavorato e, dopo la prima settimana di ripresa, come tutti, credo, ero molto stanco.
Mi sono reso conto che il riposo domenicale non era stato sufficiente. Fortunatamente, arginando le mie prospettive di operosità della giornata, avevo la possibilità di recuperare.
Ma un pensiero ha preso rifugio nella mente e nel cuore. Mi dava una leggera dolenza.
Dio mio, non basta più un giorno solo per riposare!
Improvvisamente la memoria biografica si è ridestata e ho pensato a tutta la mia infanzia e giovinezza. Si viveva lo stesso tempo della Genesi: sei giorni di lavoro ed il settimo si riposava.
In effetti io, diversamente da persone più giovani, uso spesso l’augurio “buona domenica”.
Non che il ricordo di quelle domeniche dell’infanzia fosse sempre esaltante… Forse varrebbe la pena di compilare anche questo catalogo della noia e della malinconia. Delle radio-transistor e dello zucchero filato in piazza Castello.
Ma chi dice più “buona domenica”, oltre a me? Viviamo nell’epoca dei Week-End!
Dal sabato del villaggio siamo precipitati nella febbre del sabato sera e ancora la febbre del sabato sera ha ceduto al nostro bisogno di svago, anticipandolo al venerdì sera.
E così via, sempre per scivolamento,forse. Fino alla domanda di quel Cipputi: “Anche il pomeriggio?”
Di fatto, poco dopo l’epoca della vecchia barzelletta, nei primi anni ’80 si è discusso non poco del tema del tempo libero crescente.
Ci si figurava una società ad immagine di quel presente con una infinità di tempo libero. Gli anni in cui Baricco si inventò la scuola Holden, in cui si vide il boom di università del tempo libero e della terza età. Gli anni della riflessione sull’adultità che ha generato il contesto in cui io stesso mi muovo oggi.
Ma rispetto alle aspettative di quegli anni, le cose sono andate diversamente. In modo semplice e crudele. Tempo libero sì, ma crisi economica. La condizione di disoccupato invalida il bonus del tempo libero.
Questo nemmeno i molti marxisti di quegli anni lo avevano previsto. La crisi esplosa tra le Torri Gemelle e il fallimento della Leheman Br.
Così, viceversa, viviamo una vistosa accelerazione che ci investe tutti.
Intorno a me ho amici con cui ci si ripromette un incontro, un confronto, un progetto, ma non si trova il tempo di vedersi.
O almeno non ce l’hanno loro.
Io mi sento circondato e ho dovuto arrendermi.
Finché la salute me lo ha permesso ho girato come una trottola poi qualche angelo mi ha fermato e ridimensionato. Dolorosamente ma lo ha fatto.
Ed eccomi un lunedì mattina impreparato al carico di lavoro che è comunque dimezzato rispetto ad anni precedenti e comunque sfinito perché una domenica, d’inverno, non è bastata al riposo.
Mi resta quindi una via regia verso una sana risata.
Quella di ridere di me stesso ed è quello che ho fatto. Prima aiutandomi con una barzelletta poi, in queste ore, scrivendo questa paginetta e riuscendo a ridere di me stesso, chiuso nel bagno! Ho riso di me e di quel che mi circonda.
Sorridere perché c’è poco da ridere e lasciar germogliare il sorriso fino alla risata.
È la via di questa modulazione preziosa tra sorriso e risata che vorrei poter offrire a me stesso e ai miei lettori.
Così non servono ancora ulteriori ridondanti espressioni augurali!
2 pensieri su “Ridere di sé (con una vecchia barzelletta)”
Sorridere, ridere, fare una risata…..sembrano tre facili e scontate azioni, invece, pare diventare sempre più complicato sorridere, ancor più ridere e difficilissimo fare una risata! Eppure, caro Francesco, la tua ‘paginetta’ mi ha piacevolmente riportato alla mente il ricordo di certi sorrisi pieni di luminosità ricevuti (a volte donati), così come le risate “grosse” fatte anche per delle barzellette ben narrate, e un po’ mi vengono alla mente, anche, le rade risate di questi attuali tempi miei che, però, riesco ancora a fare e condividere (qualche volta) concedendomi spazi di vera ilarità e cuore sereno! Ma, soprattutto, penso alla capacità di ridere di sé: quella è una preziosa dote, difficilissima da rintracciare oggigiorno, e tu mi hai fatto riflettere sull’importanza di saperlo fare, per essere coerenti e sinceri con se stessi!! Grazie Francesco e “buona domenica a te” per ogni domenica! rita
Grazie dell’attenzione e, visto che mancano 3 minuti alla mezzanotte…… ancora buona domenica, una domenica in più 😉