Queste poche righe per invitarvi al te’ filosofico di domani mattina. I nanetti calzolai di cui parlavo la settimana scorsa han lavorato. Sono riuscito a intervenire e non ho potuto riscontrare altro che questa buona notizia.
Ci sono persone che tornano volentieri e che han voglia di incontrarsi e di parlare in modo semplice, vissuto e vivente degli spunti offerti. Spunti non sempre riconducibili ad una immediatezza, riflessioni spesso di notevole complessità.
È il caso di questa svolta del nostro lavoro. Avevamo progettato qualche mese fa i primi temi generali su cui orientare la riflessione del le prime settimane. Avevamo scelto due temi iniziali.
La bellezza (riflessione svolta nei primi incontri grazie allo stimolo offerto dalla presentazione del libro “La bellezza sostenibile”. Questo è avvenuto. Possiamo ripercorrerne la memoria nei posts precedenti che riguardano i primi tre incontri.
Il secondo tema, nel nostro progetto era la Domus, la casa nella valenza archetipica. In quella valenza in qualche modo comunque sottesa da chi sceglie, per arredare la propria casa, un certo stile, una sensibilità piuttosto che un’altra. Tema ovviamente caro e tasto sensibile per chi si riferisce a Cargo con questa domanda.
Ciò che in fondo non avevamo previsto e che abbiamo accolto come un dono è la ricchezza di temi e riferimenti portati dal prof. Silvano Petrosino che ha presentato il suo libro “La Scena dell’Essere”, ricco di riferimenti a temi affascinanti, ma non immediatamente assimilabili per i non addetti al lavoro filosofico, presenti nell’opera di Levinas, Derrida, Heidegger.
Particolarmente toccante il riferimento al tema di quest’ultimo legato al saggio “Costruire, abitare, pensare”. Un saggio del 1951 in cui emerge con radicalità, ma anche con una sorta di freschezza e di rinnovata vocazione, una sorta di metafisica delle piccole cose. Dalle piccole/grandi azioni che costituiscono l’essenziale dell’esistenza umana. Ovviamente queste dilettantesche osservazioni sono solo mie, ma, se me lo consentite vorrei seguirne il filo. È il filo di pensiero con cui ho ascoltato le più varie testimonianze emerse di numerosi amici che hanno preso la parola domenica scorsa.
Ho un ricordo abbastanza preciso dei momenti in cui, trent’anni fa, leggevo con passione e dedizione il saggio di Heidegger. Era il punto di approdo della filosofia contemporanea. L’oasi a cui ci aveva condotto l’impatto dell’esistenzialismo connesso con due guerre mondiali esplose nel secolo XX.
Un impatto che aveva in un certo qual modo, vanificato la possibilità di un approccio alla metafisica che non investisse direttamente l’esistenza del singolo individuo. L’esperienza dell’incontro con la morte disseminata nell’esistenza di tanti uomini, li rendeva diffidenti rispetto alla possibilità che un sistema filosofico-metafisico potesse rispondere a domande di senso tanto incalzanti.
L’uomo che, scampato alla morte, ritorna dalla guerra e ritrova casa e famiglia… Quello è l’uomo che si chiede che cosa significhi abitare. Lui è colui che si interroga sulla connessione tra l’abitare ed il pensare…. L’uomo che può concepire l’intuizione poetica ma anche filosofica secondo cui “il linguaggio è la casa dell’essere”, l’uomo che si chieda che cosa significa, in senso più profondo abitare, tornare a casa. Che cosa ci faccia sentire a casa nostra.
Tornando al trentenne che son stato e che ha letto con passione queste pagine con la sottile suggestione di leggere quanto di più avanzato la filosofia contemporanea proponesse, la considerazione con cui vi rinnovo con entusiasmo l’invito per domattina è questa.
Non avrei mai pensato trent’anni fa che oggi di queste stesse pagine avrei potuto parlare in un’atmosfera semplice e conviviale. Non avrei mai pensato che le argomentazioni heidegerriane potessero trovare interlocutori tra gli architetti e tra coloro che, su un piano completamente diverso, si occupano dell’arredamento e della architettura di interni.
Sebbene non posso non riscontrare le brutture, le brutalità che la vita quotidiana di questi anni ci propone a piene mani, nondimeno non posso non prendere atto del fatto che la possibilità di un incontro tanto vivente e trasversale, non più inteso come attività specialistica e accademica, abbia un valore enorme e costituisca una singolarità preziosa a questa nostra epoca tormentata.
Un epoca in cui la metafisica non abita più in strati dell’esistenza celeste ma è riconosciuta nell’ombra delle cose più piccole e più concrete. La metafisica si è sprofondata ed abita nella considerazione delle più piccole cose.
A me non appare una grave perdita. Mi sembra invece la cosa più preziosa della nostra epoca. Anche se ci espone a rischi e a possibilità di fraintendimento. È un rischio che vale la pena di correre. Per questo, malgrado non sia un filosofo, malgrado non abbia alcuna ambizione a dichiarare nulla di ultimativo, mi preparo a recarmi con piacere al nostro te’ filosofico, nella sala da te’ Mekong, presso Cargo, Milano, in via Meucci 39, alle 11 in punto. Vi aspetto con piacere. Abbiamo anche nuove prospettive e proposte!
Nota bene: ho scelto non a caso di non illustrare il post con una immagine della bella sala da te’, teatro dei nostri incontri. Da questa settimana pubblicheremo immagini dell’ambiente immediatamente circostante la nostra sala. Lo spazio espositivo in cui avvengono le proposte abitative. In una terza fase pubblicheremo il guscio ancor più esterno della sala da te’: l’edificio di archeologia industriale, la vecchia fabbrica dell’Ovomaltina. Non dimentichiamo di abitare in questa!