Il passaggio
Ha passato la soglia nei giorni scorsi una persona molto cara a tutta la mia famiglia.
Pierino Annino era un ragazzino di famiglia contadina che venne assunto come aiutante tutto-fare dal medico condotto di un paesino della Puglia tra gli anni 40 e gli anni 50.
Il medico era Don Ciccio Pazienza. Il dottore Francesco Pazienza, mio nonno. Lu dottore.
Questo nonno ebbi la sorte di incontrarlo solo per qualche giorno, un paio di volte nella mia prima infanzia.
Mio padre, medico anch’egli, si era trasferito a Milano e solo episodicamente la mia famiglia lo ospitò in occasione di qualche necessità sanitaria.
Parlare di questo nonno, di questo grande protagonista e della sua spalla fedele, Pierino, vuol dire contattare una zona abbastanza remota della mia psiche.
Nell’anima mia Don Ciccio e Pierino abitano in eterno. Se immortale pensiamo l’anima.
Mi accingo pertanto ad indicare due potenti costruttori della mia psiche.
Credo che ciascun lettore, con debito lavoro interiore, possa reperire qualcosa di analogo. Per questo ne scrivo. Non perché ritenga particolarmente significativa la mia biografia.
Vorrei che il mio lavoro biografico e mitobiografico possa costituire istigazione per altri a fare altrettanto. Mi pare ne valga la pena per ciascuno!
Da questo nonno credo di avere ereditato tutti gli aspetti più ombrosi del carattere.
L’irascibilità così tipica dell’animo mediterraneo. La Puglia è compresa in quella che, significativamente, ricordiamo ancora come la Magna Grecia.
Irascibilità e dintorni: suscettibilità, voglia di vendetta e desiderio di uno scontro con l’altro che possa indurre in ciascuno una indagine sul mistero di sé.
L’animo dell’antica Grecia non spende solo della luce che illumina le immagini della scultura. C’è l’oscurità del senso del tragico, l’ira di Achille, l’invenzione della filosofia e molto altro. Nel chiaro e nell’oscuro.
Una salvietta di lino bianca.
Don Ciccio Pazienza era medico condotto e suppongo che fosse tenuto ad accorrere ad ogni chiamata di una popolazione contadina.
Ma in paese, molti lo ricordano ancora adesso, non sarebbe uscito in visita se la famiglia del malato non gli avesse messo a disposizione una salvietta di lino bianco. Pulita e stirata per l’esercizio della sua professione.
Ogni famiglia doveva custodirla nei propri armadi per una eventuale visita del dottore.
Ma lo sbalzo che la mito-biografia imprime alla biografia umana, questa sorta di trascendimento, ci catapulta immadiatamente in una immagine caratteristica dell’antropologia indo-ariana. L’offerta della stola, la sciarpa bianca come offerta dalla mente pura al maestro. Tradizione presente in quasi tutta la tradizione buddhista. L’offerta della Kata.
“E’ ben nota l’ usanza Tibetana di dare come offerta un kata o sciarpa bianca in segno di saluto.
Il kata è un simbolo di buon auspicio. Si presta come una nota positiva per l’avvio di qualsiasi impresa o del rapporto e indica le buone intenzioni della persona che lo offre.“
Curioso come questo elemento indo-europeo venga ripreso nel Buddhismo tibetano che indoeuropeo non è!
Chimico alchimista ma con la stanza de lu turnio.
Ma mio nonno non era solo questo.
Molti particolari significativi della sua biografia li trattengo ancora un po’ nella camera oscura del mio cuore. Sono ancora in fase di sviluppo e fissaggio e saranno disponibili in futuro.
Per ora anticipo che Don Ciccio Pazienza era considerato anche un chimico-alchimista.
Pare che in una stanza di casa sua, che non ho mai visitato, avessero spazio anche provette ed alambicchi.
Forse un medico di quegli anni doveva supplire in modo domestico a qualcosa che oggi ha luogo in laboratori specializzati.
Questo mitico locale era denominato la stanza del tornio.
Che cosa ci facesse un tornio è per me (ma non solo) un oscuro mistero che solo il racconto di Pierino avrebbe potuto illuminare.
Ma Pierino ha passato la soglia e a noi non resta che il mistero da custodire.
Forse mio cugino, che spero mi legga, potrebbe sapere di più…
Radiografie (guardare l’uomo-attraverso)
Quel che io so, e lo so dal racconto di fonte non sospetta (i ricordi di mio padre), è che, nell’incredulità generale, don Ciccio fosse riuscito nell’epoca tra le due guerre a costruire nel suo laboratorio un rudimentale apparecchio per scattare radiografie. E che i primi scatti fossero stati felici. Poco dopo l’apparecchio si guastò irreparabilmente. Come una rudimentale, sebbene prodigiosa, costruzione domestica. In un’epoca in cui il bricolage aveva ancora da venire.
Curioso scoprire, con la nostra attuale prospettiva di biografi, che mio padre sarebbe diventato un radiologo.
Ma non lo fu per entusiasmo e non si costruì mai con le sue mani un tubo-Roengten per raggi X.
Scelse la radiologia quando la tisiologia, suo primo amore, fu depennata come specializzazione significativa dalla diffusione della penicillina. Con tutto quello che la tubercolosi aveva prodigato alla storia dell’anima ottocentesca! Non ci sarebbero più state traviate da guarire!
Deluso e amareggiato, come tradito dal suo grande amore, in un accesso di pragmatismo di cui posso comprendere l’insorgenza, ripiegò sulla radiologia.
Divenne però un abile fotoreporter della fisiologia interna dell’uomo della strada. Vide così tanti tubi digerenti, femori e rachidi-in-toto da considerare negli ultimi anni, passeggiando con me per le vie di porta Ticinese, che in fondo, osservando un uomo passeggiare, era in grado di intuirne la conformazione degli organi interni e delle ossa.
Anch’io passo la vita a guardare l’uomo attraverso ma quella volta non riuscii a trattenermi dal concludere che della figura umana mio padre percepiva lo scheletro. Che macabra visione!
Forse per questo non seguii le sue orme, anche se un padre radiologo e uno studio radiologico attrezzato pronto da ereditare era qualcosa che avrebbe ingolosito molti figli di papà.
Ma io mi riconobbi presto figlio di un altro Padre, sebbene da lui abbia ereditato l’amore per il lavoro.
Un amore per il lavoro e per l’azione che a sua vota ereditò da suo padre. E torniamo con questo a don Ciccio Pazienza.
Il dottore “adotta” il figlio del miliziano.
So che “lu dottore” leggeva anche Goethe ed è testimoniato anche il suo amore per la figura di Gabriele D’Annunzio e le sue imprese.
Si. Pare che il fascismo, più tardi, non abbia entusiasmato la mente irrequieta del dottore.
Come invece entusiasmò mio padre che frequentò la prima elementare nel 22 e si laureò nell’anno della caduta del fascismo.
Lu dottore, invece, rimase devoto a D’annunzio e in questo, caro Pierino, sprofonda il seme dell’affinità elettiva che ti connetterà alla famiglia Pazienza.
Il giovane Pierino era, in realtà, figlio di un mitico personaggio ben noto in paese. Lo chiamavano Annino lu milite. Anninus miles, nell’idioletto classicheggiante di mio padre. Aveva imparato greco e latino dai Gesuiti. Cose che non si dimenticano facilmente.
Annino-milite aveva partecipato ad una delle prime imprese di D’Annunzio.
Io stesso, adolescente, partecipai ai suoi funerali in un pomeriggio d’estate di un mio soggiorno al paese d’origine.
Come da questo scorcio possiamo intravedere, il dottore gli aiutanti se li sapeva scegliere.
Così il figlio del miliziano venne quasi adottato nella famiglia del medico condotto.
Che tutto questo costituisca l’inquadratura dovuta alla presenza del primo attore.
Ma, lo sappiamo tutti, non c’è primo attore senza la presenza di un’altrettanto efficace “spalla”.
Di tutto questo riprenderò a raccontare nella prossima paginetta.
Ci confronteremo col teorema di Pierino. E di don Ciccio Pazienza.
Un affettuoso augurio ai miei pazienti lettori di buona ripresa autunnale!
Per illustrare questa paginetta ho scelto una immagine generica ed emblematica che semplicemente possa darci una idea dei volti, dei luoghi, della umanità qui presente.
Sto ancora riflettendo se e quali immagini personali sia lecito condividere.