Ci sono giochi giocati o fatti giocare ai bambini intorno ai primi anni ’50 che, a ricordarli oggi, vien la pelle d’oca.
Uno è rimasto conficcato dolorosamente nella mia memoria come un chiodo.
Il gioco del silenzio.
Per attenuare immediatamente la drammaticità della cosa, posso dire che ne coltivo la memoria grazie ad un fatto curioso. Un po’ misterioso.
Nella camera segreta del cuore, nella memoria umana, per una curiosa dinamica, cose molto gradevoli e cose molto sgradevoli si richiamano secondo assonanze, convergenze paradossali.
Svelerò questo nesso solo in conclusione.
Per ora resti solo una buona promessa. Un proposito. Questa narrazione non è, da parte mia, mossa da risentimento. Nemmeno da un gusto dell’orrido che non credo di aver mai coltivato. Nemmeno i film di questo genere han su di me alcuna attrazione.
Il gioco del silenzio veniva proposto nell’ultimo quarto d’ora dell’orario scolastico della scuola elementare. Probabilmente la lezione era finita un po’ prima. Il maestro era stanco. Forse semplicemente stufo.
I giochi eran fatti. I voti assegnati. I compiti annotati sul diario per controllo del genitore che avrebbe dovuto firmare e supervisionare questa e altre cosette sgradevoli. Note di demerito, compiti in classe.
Ognuno tornava casa col proprio fardello.
Io avevo sempre qualcosa da temere e di cui preoccuparmi. Qualcosa che tende ad accompagnarmi ancor oggi. Ora però ho imparato a conviverci.
Ma quegli ultimi minuti avanzati…. ridondanti….! Che ossessione!
Bisognava attendere il suono della campana per uscire dall’aula in fila per due, secondo la propria altezza. All’inizio dell’anno e ogni qualche mese si sceglievano le coppie. Si marciava fino alla strada in cui finalmente ci si scioglieva. Inutile dirlo, parlo di classi solo maschili!
Ma nei ritagli di minuti di cui dicevo, emergeva la natura più disgustosa e perversa dell’istituzione scolastica: il gioco del silenzio.
Ognuno doveva restare fermo nel banco, in silenzio.
Ostentare una immagine di disponibilità e mansuetudine.
Con il solo atteggiamento psicofisico occorreva convincere che nessuno di noi, per nulla al mondo, si sarebbe messo a chiacchierare con il compagno di banco.
Ridacchiare poi sarebbe stato considerato un fallo da espulsione.
Nessuno avrebbe mai nemmeno lontanamente pensato di mettere mano ad un giornalino nascosto nel banco.
Ma, mi chiederete, il gioco dov’è? Me lo chiedo anch’io oggi rievocandolo.
Il gioco consisteva nel fatto che colui che appariva il più buono veniva chiamato a esercitare le funzioni di nuovo giudice.
Inizialmente il primo veniva designato dal maestro o veniva chiamato il capo-classe. Poi di volta in volta, nel giro di qualche minuto, si avvicendavano vincitori che diventavano giudici.
Probabilmente potrebbe essere che in questo modo il maestro potesse allontanarsi dalla classe per qualche minuto o semplicemente stare in pace per qualche decina di minuti pensando ai fatti suoi.
Quello che rimane ancora dolorosamente impresso nella mia memoria sono le immagini grottesche di alcuni miei compagni.
Se non altro, non certo la mia.
Giovani corpi di scolari si protendevano vistosamente sul banco per essere notati più degli altri. Per vincere il trofeo!
La bocca serrata fino a nascondere completamente le labbra. Che fosse ben chiaro che quella bocca non parlava da giorni e per altrettanti non avrebbe parlato.
Le braccia rigidamente conserte e in bella vista sul banco.
La postura completamente, obliquamente, protesa verso la cattedra.
Sono io il più buono, il più silenzioso, il più disciplinato!
Che pena, che dolore guardare quei teneri corpi così mostruosamente contratti.
E quello sgorbio di scultura, quella mostruosità di postura, avrebbe dovuto rappresentare l’immagine di ciò che l’istituzione, l’alta idealità pedagogica chiedeva ad un ragazzo?!
Per essere passati di qui, possiamo ben dire che ce la siamo cavata bene.
Scusate ma mi fan ridere le indignazioni attuali per figure scipite di una Moratti (avete notato quanto somigli a Stanlio?) o di una Gelmini? Pallida, sublime, occhialuta! Sarebbe stata una maestra abbastanza mite, a quei tempi!
Veramente, brava gente, rispetto ai maestri che ci facevano marciare come soldatini e usavano il fischietto per farci segnare il PASSO! Ho memoria anche di qualche bacchetta.
Che male volete che facciano le attuali, isipide riforme, se da ciò di cui appena ho evocato un pallido tratto, non siamo usciti con le ossa rotte?
Vogliamo capire che il destino di un individuo, fortunatamente, non è solo un effetto della sua educazione?
Molti di noi sono sopravvissuti ad educazioni spaventose e sono delle splendide persone!
Riprendendo Nanni Moretti e aggiornando l’età diciamolo….. Siamo degli splendidi sessantenni!
Ma tornando ai corpicini contratti nel banco. Come confondere la virtù con tanto pietosa parodia e incoraggiarla, rinforzarla?
Le pagine più lucide su tutto questo le ha scritte Giovanni Papini. Strano personaggio. Di lui si ricorda naturalmente che aderì al Fascismo, ma si dimenticano molte oltre altre cose forse più importanti.
La cosa comunque che mi interessa più da vicino è che era uno degli autori prediletti da mio padre. Un padre educato rigidamente dai gesuiti e che ha ostacolato non poco il mio cammino verso la maturità. Era ossessionato dal mio scarso rendimento scolastico.
E per questo tormentava me.
Un caso del destino ha fatto si che solo dopo la sua morte io abbia trovato un piccolo pamphlet di Papini che forse gli avrebbe messo qualche pulce nell’orecchio. Si intitola “Chiudiamo le scuole!” Lo vedremo tra poco.
Ma come ho detto è acqua passata. Forse va davvero bene così. La vita e la morte non sono mai fattori accidentali e se so scrivere è davvero perché questa è l’unica cosa che mio padre ha saputo insegnarmi e lo ha fatto con amore e con passione prima di ammalarsi.
A lui naturalmente è dedicata questa pagina. A lui e al suo/mio Giovanni Papini.
Guardate un po’ voi stessi che ne dice delle scuole!!!
Se ho parlato di tutto questo, come annunciavo in esordio è per un motivo lieto.
Quando, circa 30 anni dopo gli eventi narrati, mi sono trovato col prof. Corrado Pensa in una sala di meditazione, dopo i primi passi, che descriverò nel prossimo post sulla meditazione, mi son sorpreso a pensare: eccolo qui il gioco del silenzio. Questa volta la sfida la posso accettare. Il silenzio e la calma, l’immobilità e la disciplina non sono una grottesca parodia, ma il frutto di una scelta cosciente e amorevole.
Certe cose si possono fare, dare o offrire solo per amore.
Benvenuto silenzio, benvenuta meditazione!
Grazie, professor Pensa!
9 pensieri su “Il gioco del silenzio – Il grado zero della meditazione”
caro francesco,
le mie elementari risalgono agli anni ’80, e il gioco del silenzio, in classi miste, era ancora in voga… chissà quali pratiche educative che stravolgono il senso della relazione con sé e l’altro sono ancora in voga. un abbraccio, chiara
Sei al corrente di qualcuna?
Non sono mai stato un ottimista ma, guardando la scuola odierna mi sembra avanti anni luce!
È vero che tu sei molto più giovane di me…..
Lasciami un pò di ottimismo!
Pensa che a quei tempi i banchi erano imbullonati nel pavimento ed erano di legno opaco e massiccio!
Ricordo ancora le venature del legno sotto le dita e forse non era la sensazione peggiore.
"Il gioco del silenzio": condivido il ricordo, non solo di quando si era in classe. Scendavamo le scale per recarci all'uscita, rigorosamente in silenzio, testa alta e in fila per due… e quando la maestra si girava, senza un motivo preciso, coglieva quella che era la più muta e disciplinata, dicendo: "Un dieci a Tizia, anche Caia…" e quando avevi raccolto, alla stregua di figurine per un album, dieci bigliettini con il fatidico "10", potevi avere il POTERE, una lavagna divisa in due da una sottile striscia lasciata dal gessetto; a sinistra la colonna dei buoni e a destra quella dei cattivi… per quel mese dovevi sentirti fiero di poter candidare alla nota di merito o demerito i tuoi compagni… Le bacchette erano due: quella corta, che ti colpiva sulle mani e quella lunga, una sorta di canna, che ti piombava bruscamente, vinta dal peso, sulla testa. La chiamavano EDUCAZIONE, a cosa? Così sono trascorsi i cinque anni alla scuola elementare frequentata a Milano, i successivi tre di medie furono una boccata d'ossigeno e poi il trasferimento a Lecco. Scuola superiore: Istituto retto da suore e il "Gioco del silenzio", come uno spettro, riapparve in tutta la sua mostruosità, con la messa alla berlina di chi si era permessa di alzare la testa, di sfidare lo sguardo dell'istitutrice… Non aggiungo altro, ciò che ho citato è già molto, troppo direi! Felice d'aver cambiato istituto e di poter rammentare queste vicende passate con il sorriso, forse qualcuno non riesce più a sorridere.
Scusa il ritardo di approvazione e risposta, ho avuto di nuovo problemi di salute!
Grazie di aver agggiunto nuovi particolari al grande plastico (penserei però ad una bomba al plastico!) del mondo scolastico in cui siam cresciuti.
Aggiungo a mia volta qualcosa che forse tu, come femminuccia ti sei risparmiata: La marcia militare scandita dal fischietto e l’imperativo “PASSO!).
Tutto considerato però …. un po’ come Nanni Moretti che dice di sé: sono uno splendido quarantenne! Tutto sommato per i paesaggi, per i plastici da cui veniamo, non ce la siamo poi cavata tanto male!
Grazie dell’attenzione!
Caro Francesco, oltre alla risposta al mio commento ho ricevuto,nella giornata di sabato, durante il corso di "scrittura creativa", un dono prezioso: la fiducia nel prossimo e la voglia di condividere. Ti ringrazio per come ci hai condotti, con maestria e semplicità. Io posso parlare per me, ovviamente, ma ho osservato lo sguardo di tutti i presenti e credo di poter dire che, alla fine della giornata, una luce nuova si era accesa in ognuno di loro, portando a casa un'emozione in più, un sapere diverso… non posso certo dire cosa e quanto ma posso, sicuramente, affermare che l'atmosfera regnante prima, durante e dopo il corso era cambiata. Ho percepito le perplessità, gli ostacoli, le paure e le certezze dei presenti, in un sottile e mutuo scambio. Una sorta di "terapia di gruppo" mascherata da gioco, così le persone si lasciano andare e affiora ciò che tengono serbato e celato nel cuore. Eravamo lì con il corpo, la mente e lo spirito, abbiamo dato e ricevuto, è stato fantastico! Ah… per dirla tutta sull'argomento del "Gioco del silenzio" e tua relativa risposta… beh… la mia maestra deve aver fatto un po' di confusione perchè anche noi, femminucce, iniziavamo a marciare al suono del fischietto, una marcia segnata dalle parole "passo" e… "cadenza". Manuela
Cara Manuela
La mia risposta e il tuo ringraziamento sono così tardivi perchè, come avrai notato , ho terminato il seminario con 38 di febbre. In serata é poi salita a 39.
Dopo ogni interruzione faccio un po’ di fatica a non perdere il filo.
Sono comunque molto abile a perderlo anche senza queste legittimabili motivazioni!
È un talento naturale!
Un abbraccio, grazie dell’attenzione e dell’esserci!
Ho sbagliato, scusa. secondo il mio punto di vista, questo gioco era perdere tempo prezioso. Io non amo il silenzio, ma comunicare. E' impossibile comunicare in un'aula tutti in silenzio, tremendo.
Cara Giuditta
ti rispondo con tanto ritardo perché già la settimana scorsa ti avevo risposto ma per quegli scherzati dei nostri giocattoli telematici, il testo è scomparso.
Anche per il tuo primo messaggio partito per errore, semplicemente non l’ho approvato. Come vedi succede a tutti!
Quanto alla tua riflessione, ti risponderei così.
Sono molto lieto che tu non capisca il senso del gioco del silenzio. Per diversi motivi.
Prima di tutto perché probabilmente non l’hai vissuto e non l’hai subito!
In seconda istanza perché il senso non ce l’ha e quindi, hai ragione a non capire.
Come ho cercato di spiegare, era semplicemente uno stratagemma che i maestri d’altri tempi adottavano per non essere disturbati in qualche momento di pausa o di assenza.
Il mio riferimento a questo gioco è quindi interamente ironico.
Non ho mai capito neanch’io, mentre lo subivo, che senso avesse.
Paradossalmente mi è tornato in mente solo nel momento in cui, per la prima volta in vita mia, ho davvero apprezzato la preziosità di un vero silenzio. Che non è evidentemente imporre ad altri la possibilità di parlare a vantaggio della propria tranquillità.
Un caro saluto e grazie dell’attenzione!